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domenica 26 maggio 2013

Il maiale: tra cucina e tradizione…








Il maiale è da sempre considerato uno dei doni più generosi che la  natura ci abbia mai fatto, tanto che, secondo un detto e secondo pratiche popolari, “del maiale non si butta via niente”!!!
Esso è tuttavia anche il simbolo negativo degli istinti “bassi”, dell’impurità nascosta in un corpo incessantemente sottoposto a tentazioni:… le “porcherie”;-)…istintività negativa, da domare e oltrepassare ma, al tempo stesso, carnalità necessaria.
Tornando alla cucina…quello della macellazione è un vero e proprio rito della cultura contadina non solo polesana; una festa gioiosa che terminava il 17 gennaio, primo giorno di carnevale e giorno della celebrazione di S. Antonio Abate, chiamato anche S. Antonio “dal busgatìn” (del  porcello)…perché viene raffigurato con un maiale ai suoi piedi. L’associazione tra il Santo e il maiale è dovuta al fatto che Antonio Abate venne sottoposto nel deserto a delle tentazioni da parte del demonio, che gli apparve nelle sembianze di porco. Al dominio del Santo sul maiale è strettamente connessa la virtù terapeutica del lardo suino di guarire la malattia cutanea di origine virale, conosciuta nel mondo contadino come “fuoco di S. Antonio”.
Nella tradizione polesana, il …….o “massìn” in veneto, era il protagonista della macellazione che veniva chiamato per l’uccisione del maiale. Mentre per “disfare” il maiale e “far su”i salami, si potevano dedicare gli uomini di casa, con il supporto di parenti e amici, l’atto di ammazzare l’animale domestico veniva adempiuto da un estraneo al gruppo famigliare. Egli era una figura rassicurante, padrona del proprio rituale, capace di portare sulle spalle il peso di quel rituale macabro. Si narra, infatti, di “un norcino di Papozze che, tornato a casa dopo un uccisione, appendeva alle travi della sua stanza da letto una cipolla, per timore che lo spirito del maiale ritornasse a vendicarsi di lui”.
Nel mattino prescelto per l’uccisione del maiale doveva esserci scuro di luna e i lavori cominciavano prima dell’alba. Il norcino entrava nel “cason” e guidava fuori l’animale, senza mai guardandolo negli occhi. Si temeva infatti che, una volta morto, il maiale potesse ritornare a vendicarsi dei suoi carnefici. Prima della scorticatura si usava cospargere la testa e il dorso del maiale con cenere o coprirlo con un panno. Ciò avrebbe migliorato le condizioni di igiene e avrebbe mantenuto bella bianca la cotica. La cenere, in realtà, era ritenuta di buon auspicio per la fertilità. La cotica coperta con il panno ricorda, invece, le usanze sacre dei romani che erano soliti coprire le vittime con un velo, separandole definitivamente dal mondo terrestre e avvicinandole al mondo divino.

Come utilizzavano una volta il maiale. Nulla andava sprecato!
Una volta dal maiale si ricavavano salami, salsicce, pancetta, ma soprattutto lardo, che era l'unico condimento adoperato da tutti per tutto l'anno. Il lardo era conservato intero, dopo esser stato ben salato e pepato. Di volta in volta se ne prelevava un pezzo per servirsene. I ritagli del lardo erano sciolti al fuoco. Il lardo liquido serviva soprattutto a conservare le salsicce. Infatti, queste erano poste in vasi che poi si riempivano di lardo liquido, che, una volta raffreddato, s'induriva, diventava bianco e conservava le salsicce per lunghi mesi, non essendo queste a contatto con l'aria.
Dalla testa del maiale erano tolti i guanciali (i muscoli delle guance) ed erano fatti essiccare. In questo modo erano utilizzati come condimento oppure erano mangiati come prosciutto. Il resto della testa era cucinato. Le spalle anteriori potevano essere utilizzate sia per fare salumi oppure per ricavare prosciutti. Le parti posteriori diventavano senz'altro ottimi prosciutti oppure ottimi salami.
Con la parte superiore della schiena si facevano le bistecche. Le ossa erano utilizzate sia per fare il brodo, sia per ricavarne sapone. Le setole si raccoglievano ed erano utilizzate per fare pennelli oppure erano inserite nella punta degli spaghi da cucito, perché entrassero meglio nella cruna dell'ago. La coda e il grasso adiacente ad essa, servivano per ungere gli scarponi, specie durante l'inverno. Di quest'animale era utilizzato tutto e ogni famiglia ne allevava almeno uno. La pelle, una volta tolto il lardo, serviva per ungere le seghe e i segoni, le grandi seghe a mano per tagliare i grossi tronchi o per fare tavoloni.  Col sangue si faceva il sanguinaccio e le salsicce “more” e con i polmoni una specie di salsicce, chiamate polmonelle. Il grasso del sottoventre era utilizzato per la profumatissima “zazieka”, mangiata a colazione con la polenta, dopo esser stata ben scaldata fino ad esser portato al punto di fumo. Il maiale era ammazzato col coltello, dopo essere stato immobilizzato e posto sopra una scala a pioli. In questo modo il maiale poteva essere trasportato facilmente da un posto all'altro.  Con l'acqua bollente si scaldavano i peli, che poi erano tolti col coltello ben affilato. Quando era loro permesso, i bambini raccoglievano i peli per poi venderli.

Il maiale e la tavola:
Un tripudio di costicine, di braciole, di pancette, prosciutti crudi e cotti, capicolli e lardo eppoi la carne divisa per gli insaccati, per cotechini o per i salami da taglio, il profumo del primo pugnetto di carne cotta su carta velina nel forno della stufa a legna che serviva per assaggiare la salatura chiamata appunto ‘ tastasale’ o ‘pisto’ la cui fragranza si spande per tutta la casa. E l’indomani…i ciccioli, che sfrigolano allegri nel paiolo di rame tra gli antichi sapori del rosmarino e dell’aglio e lo strutto ottimo per le fritture prossime del carnevale.
Il maiale era considerato con rispetto nella famiglia polesana tanto da meritarsi un nome ed era sempre consumato con concentrazione a volte in religioso silenzio. I Romani chiamavano lucanica una salsiccia tuttora indicata con lo stesso nome. Le frattaglie erano le prime a essere consumate, il fegato cotto con molta cipolla alloro e vino bianco, le trippe che si consacrano con il riso polesano scodellato al dente, il cuore in umido piatto tipico delle trattorie e osterie rodigine accompagnato sempre da polenta morbida o a fette.
Lo“straculo” scamone, parte nobile del maiale ottimo sacrificato al fuoco e agli aromi dell’arte del cuocere, paragonabile all’arista toscana (lombata) la parte migliore. Il cotechino apparirà dopo una breve stagionatura nelle mense ammannite a festa, ottimo anche freddo, ma direi regale, se avvolto in pasta pane e rimesso in forno, una squisitezza che ben si sposa alle brume invernali e infine i salami che scandiscono l’anno agrario fino al giorno della nuova macellazione. Eppoi lo stinco cotto in tegame e l’ossobuco meno conosciuto di quello di manzo ma molto più succulento.
La bondòla (o bondiola) arriva dal Basso Polesine (Ariano, Porto Tolle, Taglio di Po e altri comuni della provincia di Rovigo): le carni magre di suino con una percentuale di grasso morbido vengono grossolanamente tritate, condite con sale, pepe macinato e in grani, aglio, vino rosso, e insaccate nella vescica di maiale o nel collo di tacchino. La maturazione è di circa un mese in un locale con braciere (il prodotto è infatti leggermente affumicato), la stagionatura è di quattro o cinque mesi. Le varianti sono: la bondòla di Adria (Ro) in cui la carne magra di suino viene macinata con carne magra di vitello (30%) e lardo, conciata con sale, pepe, vino rosso e insaccata nella vescica di suino. Dopo la stagionatura, che è di circa quattro mesi all'aria aperta, il prodotto viene bollito per molte ore.

Gli insaccati del Polesine
Quando la storia incontra la leggenda, vince la leggenda. La vera Bondola Polesana o di Rovigo è diventata come una primula Rossa, difficile da reperire, ma quando si ha la fortuna di poter assaggiare questa meraviglia, straordinaria di carne succulenta, si assaporano gusti ancestrali. Aria umida, acqua, nebbia, maiali allevati in riva ai canali che si snodano tra le sponde dell’Adige e del Po. Ecco gli ingredienti che hanno fatto della “Bondola Polesana” un mito!!!
Due anime, una veneziana e una ferrarese che negli anni si sono mescolate anche nella gastronomia con forti presenze mantovane. Il salame rappresenta per noi Polesani il simbolo dell’ospitalità. Una volta, ma anche adesso, quando si faceva visita a una famiglia, venivano offerti un buon bicchiere di vino ed una fetta di salame, per stare insieme, per parlare, per socializzare si dice ora. Nel Polesine si confezionano salami dal sapore inconfondibile, inimitabile, per questo viene utilizzata la carne migliore del maiale, filetto, lombo, prosciutto e l’aglio rigorosamente di produzione locale.
La Salsiccia Polesana, è uno dei salumi, riconosciuti TIPICI, anche dal ministero delle politiche agricole, che nel Polesine e forse più nota con il nome di MORETTA, una specie di salsiccia prodotta sempre con carne di suino, ma con l’aggiunta di fegato, molto in uso nella zona tra Stienta e Castelmassa.

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